Talking Hands vince il Premio Internazionale per l'Arte Pubblica 2024
Talking Hands ha ricevuto il Premio Internazionale per l'Arte Pubblica 2024 (International Award for Public Art - IAPA) nella categoria Eurasia, conquistando anche il prestigioso Global Award come miglior progetto a livello mondiale. La cerimonia di premiazione si è svolta il 16 novembre 2024 presso l'Università di Shanghai.
Il premio, organizzato dall'Università di Shanghai in collaborazione con la China National Society for the Promotion of Arts and Culture Public Art Committee e altri enti, ha visto la partecipazione di 87 progetti provenienti da tutto il mondo, tra cui installazioni, architettura, scultura, murales, performance art ed eventi.
Il Riconoscimento
La giuria ha riconosciuto in Talking Hands un progetto innovativo che, dal 2016, utilizza il design come strumento di dialogo e integrazione sociale. Nato in risposta alla crisi umanitaria del 2015-2017, quando l'Italia accolse circa 250.000 persone, il progetto ha trasformato un atelier di design in uno spazio di innovazione sociale dove rifugiati e richiedenti asilo lavorano fianco a fianco con designer, fotografi, insegnanti, giornalisti e volontari.
La motivazione della giuria sottolinea come Talking Hands sia riuscito a combinare lo sviluppo artistico con il supporto sociale, legale e sanitario per i richiedenti asilo, diventando un importante esempio di inclusione sociale e apprendimento permanente. Da progetto attivista si è evoluto in un "laboratorio permanente" di sperimentazione partecipativa, design e innovazione sociale.
Gli Altri Vincitori Regionali
Il premio ha riconosciuto l'eccellenza dell'arte pubblica in diverse regioni del mondo:
• Nord America: "Dakota Spirit Walk" di Marlena Myles - Un'installazione di realtà aumentata che racconta la storia e la cultura del popolo Dakota nel Minnesota.
• America Latina: "Auras Anonimas" di Beatriz González - Un'installazione nel cimitero centrale di Bogotá che onora le vittime anonime del conflitto armato in Colombia.
• Africa: "The Missing Bits" del Nest Collective - Un progetto che trasforma le biblioteche pubbliche in centri culturali vibranti attraverso archivi digitali e mostre.
• Asia Occidentale, Centrale e Meridionale: "kNOw School" del Collettivo Anga Art - Una piattaforma educativa itinerante che sfida i metodi pedagogici tradizionali in Assam, India.
• Oceania: "The Eyes of the Land and the Sea" di Alison Page e Nik Lachajczak - Una scultura monumentale che commemora l'incontro tra gli aborigeni australiani e l'equipaggio di James Cook.
• Asia Orientale e Sud-orientale: "Blooming Time - Program SPARK" di Li Hao - Un progetto che utilizza l'arte pubblica per migliorare l'ambiente educativo dei bambini nelle aree rurali della Cina.
Un Momento Significativo
Questo riconoscimento internazionale conferma l'importanza del lavoro svolto da Talking Hands nel campo dell'innovazione sociale attraverso il design. Il progetto continua a dimostrare come l'arte e il design possano essere strumenti potenti per costruire ponti tra culture diverse e promuovere un cambiamento sociale positivo.
Approfondimento Accademico
La candidatura di Talking Hands è stata accompagnata da un paper accademico scritto dalla ricercatrice Giusy Checola dell'Università Paris 8 e della Sorbonne di Parigi, che ha analizzato in profondità l'impatto e il significato del progetto nel contesto dell'arte pubblica contemporanea.
Progetto: Talking Hands;
Curatore: Fabrizio Urettini;
Ricercatrice: Giusy Checola
La migrazione nel Mediterraneo rappresenta una questione complessa e ineludibile, centrale nel dibattito politico europeo. Il 29 settembre 2016 a Treviso, Italia, ha avuto inizio una grande mobilitazione da uno dei cosiddetti "centri di accoglienza". Si tratta di centri dove migranti e richiedenti asilo vengono trattenuti in attesa dei documenti necessari per spostarsi nel paese, pur non essendo perseguiti per aver commesso alcun reato. Vivono in questi spazi come in una dimensione spazio-temporale sospesa per mesi, senza alcuna informazione sul loro futuro, bloccati in una situazione di chiusura e isolamento.
Talking Hands è nato lo stesso giorno in cui centinaia di ospiti si sono mossi da questa ex caserma, ora proprietà dello Stato, per rendersi finalmente visibili alla città. Sappiamo bene che la tipologia architettonica della caserma evita piuttosto che facilitare lo scambio con il mondo esterno. Così, queste persone hanno lasciato la caserma e occupato Piazza dei Signori, il vero centro della città, da dove partono le principali vie dello shopping. Diverse centinaia di giovani hanno occupato questa piazza. E da questa mobilitazione si è immediatamente attivato il passaparola nella rete locale dei centri culturali e sociali a sostegno di questa mobilitazione.
È interessante notare come le modalità dell'occupazione temporanea della piazza siano state molto specifiche e senza precedenti: questi giovani hanno ridefinito lo spazio della piazza installando una serie di gruppi circolari distribuiti ad anello, come racconta l'iniziatore del progetto e direttore artistico Fabrizio Urettini.
Nell'anello più grande, che fungeva da spazio e corpo principale della mobilitazione, si è costituito un comitato. Era responsabile di portare le richieste di queste persone al prefetto e alle autorità locali. Urettini è rimasto colpito dalla forma di queste installazioni che hanno formato il proprio spazio di governo temporaneo: un'assemblea circolare a cielo aperto, che occupava interamente la piazza. Hanno di fatto restaurato la funzione originaria della piazza nella città, quella dello spazio di dialogo e di negoziazione rispetto a decenni di una funzione meramente decorativa rispetto alla centralità del consumismo, che ha trasformato i centri urbani in spazi utilizzati prevalentemente per lo shopping. Dopo alcuni momenti di tensione con la polizia locale, questa delegazione è stata ricevuta dal prefetto. Nel frattempo, il progetto Talking Hands stava nascendo come modo per continuare il dialogo e lo scambio di informazioni tra questi giovani, Urettini e gli attivisti di un centro sociale e culturale di Treviso, poi le stanze di una vecchia caserma hanno iniziato a diventare uno spazio di progettazione inclusiva e partecipativa chiamato "Centro Sociale Django".
Il gruppo centrale di Talking Hands è composto da 15 persone che gestiscono i laboratori, oltre a circa 50 persone che risiedono temporaneamente nello spazio. Come riportato da Urettini, al loro arrivo la maggior parte di loro era ospitata in centri di accoglienza in ex caserme, e nonostante il calo degli arrivi seguito agli accordi del 2017 tra Italia e Libia (oltre 600.000 arrivi tra il 2014 e il 2017, poco più di 23.000 nel 2018), la situazione dei centri di accoglienza italiani era e rimane tuttora critica (Urettini, Mc Carthy, 2020). Il progetto Talking Hands si è sviluppato ponendo una domanda, apparentemente banale, ma di fondamentale importanza per persone molto energiche e creative di età compresa tra i 18 e i 24-25 anni, che si trovano in una situazione di quasi reclusione.
Alla domanda "cosa vuoi fare da grande, cosa sai fare e quali sono le tue ambizioni e i tuoi desideri", è emerso un quadro estremamente ricco e variegato di conoscenze e ambizioni, dalla lavorazione dei metalli al ricamo alla falegnameria. In alcuni casi si trattava di rudimenti del mestiere, in altri casi di vere e proprie esperienze maturate durante l'attraversamento dai paesi d'origine all'Italia, spesso per potersi permettere la tappa successiva del viaggio verso l'Europa. Contrariamente al nostro modo di viaggiare, si tratta di attraversamenti che potevano durare anche anni, perché bisogna pagare tutte le tappe del viaggio, pagare alla partenza spesso non basta. Altri, invece, erano esperti del mestiere e ne avevano una conoscenza approfondita, in particolare nel campo della falegnameria. Da lì è nata l'idea di creare uno spazio che potesse valorizzare queste competenze e conoscenze e allo stesso tempo dare loro un'opportunità di uscire da quell'isolamento esprimendo e producendo oggetti grazie alla loro energia creativa.
Figure professionali come i designer sono state affiancate a questi ragazzi. Figure ovviamente in grado di rispondere a determinate esigenze e requisiti e che si sono relazionate al gruppo di lavoro. Queste figure hanno attivato percorsi formativi, a metà tra formazione e attività laboratoriale, già in grado di determinare alcune linee di prodotto. Il curatore si è quindi ispirato più alla teoria del design che a quella dell'arte, assumendo effettivamente il ruolo di art director, non inteso come qualcuno che affida la mera esecuzione della sua idea ad altre persone, ma come un'idea registica come espressa da Eisenstein.
Quando è stato chiesto "cosa vuoi fare da grande, cosa sai fare e quali sono le tue ambizioni e i tuoi desideri?", è emerso un quadro estremamente ricco e variegato di competenze e ambizioni, dalla lavorazione dei metalli al ricamo alla falegnameria. In alcuni casi si trattava dei rudimenti del mestiere, in altri di vere e proprie esperienze maturate durante l'attraversamento dai paesi d'origine all'Italia, spesso per potersi permettere la tappa successiva del viaggio verso l'Europa. Contrariamente al nostro modo di viaggiare, si trattava di attraversamenti che potevano durare anni, perché bisognava pagare tutte le tappe del viaggio e pagare alla partenza spesso non bastava. Altri, invece, erano esperti del mestiere e ne avevano una conoscenza approfondita, in particolare nel campo della falegnameria. Da qui è nata l'idea di creare uno spazio in cui queste competenze e conoscenze potessero essere sviluppate e, allo stesso tempo, dare loro l'opportunità di uscire dal loro isolamento esprimendo la loro energia creativa e producendo oggetti.
All'inizio, i materiali disponibili erano pochissimi. Inoltre, nell'ex caserma dove sorge ancora il centro sociale, che era stato un magazzino comunale per circa un decennio, erano state abbandonate alcune centinaia di scatole di legno che un tempo venivano utilizzate per le elezioni. In pratica, erano vecchie urne elettorali che il gruppo ha utilizzato per creare la prima collezione di case o il primo progetto di design chiamato "Rìfugiati" (in italiano la parola significa sia "rifugiarsi" che "rifugiati"), simbolicamente composto da contenitori utilizzati per le elezioni nazionali, permettendo ai politici di esercitare la loro funzione di rappresentanti dei cittadini.
È stato poi scelto uno spazio per ospitare il laboratorio, che il gruppo centrale di Talking Hands ha pulito e ristrutturato insieme per adattarlo alla sua nuova vita e funzione. Pertanto, fin dall'inizio del progetto, è stato necessario impossessarsi di uno spazio per sentirlo come proprio, come casa e luogo di appartenenza. Una volta preparato lo spazio, è stato il momento di una dimostrazione di fiducia, per quanto rischiosa potesse sembrare questa operazione: il primo gesto è stato quello di consegnare le chiavi dello spazio al gruppo di lavoro, perché, come ben spiega Urettini, era l'unico modo praticabile per farli sentire a casa e godere della dimensione personale della vita di cui erano stati privati nei centri di accoglienza, di cui nessuno sa davvero cosa succede all'interno, essendo gestiti da società private. Veniva utilizzato non solo dai giovani che avevano un lavoro permanente, ma anche da coloro che semplicemente volevano e avevano bisogno di socializzare, ricaricare i telefoni cellulari o trovare qualcosa da mangiare, il che ha rafforzato e consolidato il senso di comunità che si era creato nello studio.
Dopo questa fase di costruzione delle relazioni sociali e del gruppo di lavoro con il nuovo spazio, durata circa un anno, l'idea era proprio quella di creare metodi e forse anche modelli per gestire le attività e i laboratori di democrazia diretta, basati sul diritto di riunirsi, di decidere insieme, per esempio, di organizzare questi gruppi di lavoro. Questo tipo di processo permette di condividere quando si prendono le decisioni giuste e quando si prendono le decisioni sbagliate, e la discussione che ne segue è un tipo di discussione veramente collettiva che porta altre soluzioni collettive. Non è più l'individuo che prende una decisione sbagliata, ma un corpo collettivo. Questo ci permette anche di proteggere e rafforzare il progetto in assenza di un proprio sostegno finanziario, dove è proprio l'accettazione del rischio che fa la differenza, e la preparazione condivisa non a subire ma a gestire le conseguenze. In effetti, questa è stata una delle fasi più potenti e fondanti anche dal punto di vista creativo. Ogni giorno era caratterizzato da una nuova idea, una prototipazione o un'invenzione. C'era anche l'euforia di essere finalmente insieme in uno spazio che permetteva loro di lasciare i centri di accoglienza e costruire anche una rete sociale che andava oltre la dimensione del centro. Ovviamente, questi erano percorsi creativi non lineari ma da questa prima fase hanno dato risultati artistici molto interessanti.
In effetti, questa prima collezione di case per bambini si intitola "Rìfugiati", che hanno creato con un designer professionista Matteo Zorzenoni, già presentata in un mercato del design indipendente nel Natale 2016, quindi due o tre mesi dopo l'apertura del laboratorio, a cui è seguita nel 2019 l'esposizione di una collezione di cappotti e poltrone al prestigioso Salone del Mobile di Milano.
Il Veneto, la regione amministrativa di Treviso, come il resto del Nord Est italiano, è noto per la sua vocazione industriale, è una regione che da luogo di emigrazione è diventata una regione ricca dove si produce ricchezza, proprio promuovendo un modello industriale artigianale. È un modello industriale a conduzione familiare che diventerà poi la famosa locomotiva economica del Nord Est. È un fenomeno nato nella seconda metà degli anni '70, soprattutto con il settore tessile e dell'abbigliamento, che esternalizza la produzione a piccoli laboratori e subfornitori, distribuendola di fatto in tutto il territorio regionale. Per questo una delle frasi più famose che ha descritto questo processo, anche come processo sociale e culturale, è stata "un capannone per ogni campanile", dando all'industria regionale anche un valore civico e religioso allo stesso tempo. Questo ha fatto sì che si creasse non solo una cultura ma anche una religione del lavoro e del sacrificio del lavoro, che affonda le sue radici in una lunga tradizione cattolica molto presente e profonda nella regione Veneto. Per questo motivo i richiedenti asilo che compongono il gruppo di lavoro Talking Hands sono stati immediatamente distinti dalla gente del posto dal resto dei richiedenti asilo come "quelli che lavorano", avendo mostrato fin dall'inizio del progetto i prodotti da loro creati e prodotti, cambiando di fatto il loro status se non in termini formali ma in termini culturali sociali.
Il passo successivo è stato quello di intercettare i fornitori industriali di materiali che avrebbero poi formato la rete dell'atelier. Si trattava per lo più di scarti di tessuti, legno e altri materiali di cui l'atelier aveva molto bisogno all'epoca. Da allora, il collettivo ha costruito un rapporto di fiducia duraturo con molti di loro, come ad esempio con il Lanificio Paoletti, che li rifornisce dal 2017 e che recentemente ha presentato la sua filiera al BIFTI in Cina. In particolare questo lanificio, con sede a Follina nelle Prealpi bellunesi dove nel Medioevo si insediarono i monaci benedettini che crearono un complesso sistema di infrastrutture idriche che permise poi il grande sviluppo industriale dell'industria laniera veneta, anche grazie alla posizione geografica caratterizzata da pendii frequentati dai pastori che scendevano prima della Transumanza, per la tosatura che avveniva nei giorni di Pentecoste. Una tradizione che il Lanificio ha continuato a mantenere attraverso l'organizzazione di una festa intitolata "La via della lana", che si tiene in fabbrica. È una struttura di archeologia industriale, dove vengono invitati artisti internazionali che lavorano con il tessuto a reinventare lo spazio di lavoro che diventa spazio espositivo, di sperimentazione e di incontro, di cui ha fatto parte anche il collettivo Talking Hands.
Eccellenza/impatto dell'opera
Nel corso degli anni, Talking Hands ha esplorato e sperimentato vari tipi di attività e si è evoluto insieme al mutevole contesto geopolitico in Italia e in Europa fino a diventare un importante attore nell'inclusione sociale dal basso. Un progetto che valorizza il design e l'apprendimento permanente, che si è intrecciato con le vite e le storie di tante persone, che non aspira a diventare un altro capannone ma piuttosto un luogo di sperimentazione del design e del processo partecipativo.
Da quando Talking Hands ha aperto le sue porte, decine di uomini e donne provenienti da Nigeria, Senegal, Gambia, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Ghana, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Brasile e Ucraina hanno preso parte attivamente ai laboratori di Talking Hands.
Per la sua posizione geografica, l'Italia ha una storia unica definita da alti numeri sia di emigrazione che di immigrazione. Oggi, in risposta alle tendenze migratorie, "le politiche governative sono passate dall'attirare la migrazione nel boom economico degli anni '90 alla 'securitizzazione della migrazione e delle frontiere'" (Urettini, McCarty, 2018), con conseguenze sociali e politiche devastanti: mentre da un lato aumenta la strategia della paura, dall'altro i richiedenti asilo subiscono discriminazioni e violenze in questi "centri di accoglienza". In questo modo, i richiedenti asilo sono particolarmente vulnerabili allo sfruttamento e esposti al rischio di essere intercettati e reclutati da organizzazioni criminali. Il lavoro della comunità Talking Hands ha fornito formazione professionale su supporto sociale, legale e sanitario durante i pasti comuni quando necessario. La creazione di modelli per condividere un futuro comune attraverso la celebrazione della diversità e dell'ibridazione nei processi artistici e sociali, come fa Talking Hands, promuove una società più resiliente e pacifica. Sperimenta con successo, oltre che investigare, il ruolo del design come processo intellettuale, creativo e umanistico, plasmando le condizioni per costruire una società più resiliente e conviviale.
L'impatto del progetto e il suo potere mediatico si è manifestato immediatamente dopo l'apertura del laboratorio, contribuendo non solo alla celebrazione ma anche alla creazione di legami sociali e culturali nella città di Treviso. Attraverso il loro lavoro creativo e gli oggetti prodotti, i designer/richiedenti asilo, pur non avendo ottenuto ufficialmente la cittadinanza, sono diventati di fatto cittadini agli occhi della gente. Infatti, il progetto ha attivato forme spontanee di relazione e fiducia con persone come commercianti e fornitori. All'inizio li temevano, pensando a furti. Poi, lentamente, incuriositi dalla loro presenza, i commercianti si sono informati su cosa facessero questi ragazzi e, successivamente, hanno recuperato materiali e strumenti per permettere loro di continuare a produrre. Hanno quindi stabilito una comunicazione privilegiata basata sui codici non scritti del lavoro, sulla materialità e sul pragmatismo del lavoro. Un evento straordinario in una regione governata dalla Lega Nord, un partito noto per le sue posizioni e politiche xenofobe e anti-migrazione.
L'eccellenza del progetto risiede giustamente nel modo in cui il collettivo ha trasformato il design thinking in uno strumento efficace per la reinvenzione estetica della condizione del richiedente asilo, attraverso prodotti di alta qualità artistica e manifatturiera. Allo stesso tempo, lo hanno trasformato anche in uno strumento efficiente per la creazione di reti di solidarietà che, come spiega lo stesso Urettini, non sono composte solo da servizi sociali, ma anche e soprattutto da una serie di partnership con aziende attente al territorio e con un approccio etico alla filiera. Tra i partner che forniscono regolarmente materiali tessili e modelli in eccedenza, c'è il famoso Lanificio Paoletti. Aperto dal XVIII secolo, lavora con l'"haute couture" e utilizza la lana della pecora Alpago, a lungo considerata scarto per la sua texture/fibra grossolana, che ora viene recuperata senza l'uso di coloranti chimici. Sono coinvolte altre fabbriche note, come la Tessitura Luigi Bevilacqua, a Venezia, che utilizza telai del XV secolo.
L'obiettivo del progetto, che è stato pienamente raggiunto, è quello di trovare un modo per superare lo stereotipo dell'assistenzialismo che una visione politica cieca attribuisce ai richiedenti asilo così come ai meno abbienti, per affermare e dimostrare la capacità di questi giovani designer di auto-organizzarsi e auto-determinarsi come fonti di conoscenza, come grande opportunità anche per il paese ospitante (soprattutto per l'Italia, caratterizzata da un drammatico collasso demografico) di essere veramente designer piuttosto che solo richiedenti asilo.
Talking Hands fa parte anche del progetto Arte Útil di Tania Bruguera, in quanto "risponde all'urgenza che molti richiedenti asilo e rifugiati sentono non appena mettono piede sul suolo di un nuovo paese: lavorare e imparare la lingua". Contrasta il potere della creatività e dell'arte e del design socialmente impegnati con "i tagli governativi al sistema di accoglienza e protezione per rifugiati e richiedenti asilo, che hanno ridotto significativamente i servizi di base come l'alfabetizzazione, la salute mentale e il supporto individuale". Talking Hands ha partecipato alla mostra che si è tenuta a La Villette di Parigi (30.03 - 18.04.2021) nell'ambito del progetto europeo Creative Europe 4Cs (from Conflict to Conviviality through Creativity and Culture).