Il documento va inteso come tentativo di sintesi per raccontare un'esperienza in corso di sperimentazione, raccontarla attraverso tutte le sue articolazioni e nei suoi diversi ambiti di intervento. Con l'augurio che possa servire da ispirazione a chi come noi crede nell'autogestione e nel ripensare anche al mondo del lavoro.
Talking Hands è un laboratorio permanente di design e innovazione sociale. Nato nel 2016, Talking Hands incoraggia i partecipanti a usare l’attività progettuale e manuale come forma di narrazione delle proprie biografie, dei luoghi di provenienza, dei viaggi compiuti e dei propri sogni. Nel corso degli ultimi anni, Talking Hands si è rivelato un importante strumento d’inclusione sociale. Qui non solo si apprendono nuove abilità e mestieri che potranno servire in futuro, ma si danno occasioni di lavoro con designer riconosciuti, si producono e si vendono oggetti e si partecipa a iniziative di solidarietà dentro una rete di soggetti associativi e gruppi informali.
Nei primi anni di attività Talking Hands si è modellato in funzione delle esigenze via via emerse. Il progetto nasce con l’intento di sottrarre all’inattività almeno una parte delle persone presenti negli “hot spot” attraverso un percorso d’inclusione sociale, di rafforzamento e capacitazione. I beneficiari in una prima fase erano composti principalmente da richiedenti asilo ospitati all’interno dei Centri di Accoglienza Straordinaria, oggi la situazione è cambiata e la maggior parte di chi frequenta l'atelier è fuori dal programma di protezione internazionale per lo scadere dei termini previsti dall’attuale legislazione in materia di diritto d’asilo o per l’ottenimento dello status di rifugiato o della protezione umanitaria. Il design e le comunicazioni visive si sono rivelati fin dall’inizio un potente mezzo espressivo per la condivisione di saperi e per la costruzione di un percorso comune di formazione. Tutto ciò andava tuttavia supportato con azioni più specificatamente dirette ai bisogni dei partecipanti. Il progetto si è quindi arricchito in senso mutualistico con risposte immediate a problematiche quali la penuria alimentare, l'accesso all'istruzione, al servizio sanitario nazionale, all’assistenza legale e ad un supporto di orientamento giuridico. Con questi sviluppi il design è divenuto elemento caratterizzante all’interno di una rete di solidarietà territoriale, dove il dialogo e la collaborazione tra una pluralità di attori impegnati sul fronte dell'accoglienza, tende a garantire pari diritti e dignità ai partecipanti.
Talking Hands nasce nel pieno dell’emergenza umanitaria, quando in un piccolo centro urbano come Treviso, dove risiedono 85.000 abitanti, si è insediata una nuova popolazione di all’incirca 2.000 nuovi cittadini, la maggior parte dei quali ospitati all’interno di centri di accoglienza all’interno di ex caserme. I nuovi cittadini sono di un’età compresa tra i 19 e i 28 anni e provengono perlopiù dall’Africa subsahariana (Nigeria, Senegal, Gambia, Guinea Bissau, Guinea Conakri, Ghana) ma poi sono presenti anche delle comunità provenienti dal Ciad e dall’Asia centrale: dal Pakistan e l’Afghanistan principalmente e una presenza consistente anche dal Bangladesh. Nonostante il calo degli sbarchi seguito agli accordi del 2017 tra Italia e Libia (oltre 600 mila sbarchi tra il 2014 e il 2017, poco più di 23 mila nel 2018), la situazione dei centri di accoglienza italiani rimane critica. Il numero di persone accolte è progressivamente diminuito (da 180 mila a fine 2017 a poco più di 100 mila ad agosto 2019), ma le modifiche normative dell’ultimo anno (c.d. Decreto Sicurezza 1 e 2) hanno reso più difficile l’accesso al sistema e la gestione dei centri. Le problematiche storiche del sistema di accoglienza italiano, infatti, non sono state risolte: tempi di attesa molto lunghi (generalmente non meno di due anni), scarsa partecipazione dei Comuni al sistema SPRAR, con conseguente ricorso a strutture emergenziali, mancanza di programmi di integrazione diffusi e necessari. Questa sistemazione si presta ad una lunga serie di problematiche: meno controlli sulla gestione e sulla qualità dei servizi offerti (e di conseguenza sulla rendicontazione delle spese), conflitti con la popolazione residente e tra gli stessi ospiti, e soprattutto inadeguatezza del percorso di integrazione. In questo modo, i richiedenti asilo non hanno la possibilità di apprendere la lingua e di sviluppare competenze utili all’inserimento lavorativo: ciò determina, anche in caso di riconoscimento dello status di rifugiato, la forte esposizione a situazioni di marginalità.
Abbiamo pensato alle mani parlanti, per lanciare un messaggio: se la vita ti ha tolto tutto e non possiedi più niente, neppure un titolo di cittadinanza, questo non significa che qualcuno possa toglierti il desiderio di rimetterti in gioco, di riprendere in mano il tuo destino, esiste una ricchezza tanto grande da non poter essere misurata e che proviene dal nostro vissuto biografico, dai nostri occhi, dalla nostra sensibilità e certamente anche dalle nostre mani.
All’interno dei diversi atelier lavorano assieme designer, richiedenti asilo, rifugiati, fotografi, insegnanti, giornalisti, pensionati e volontari che a vario titolo partecipano al progetto. Abbiamo creduto importante che il gruppo di lavoro fosse accompagnato da dei professionisti per varie ragioni: la prima era quella di operare in un contesto che si colloca a metà tra formazione professionale e attività pratica di laboratorio, questo per consentire ai ragazzi di implementare le proprie abilità. Crediamo sia necessario cercare di liberarci dall’immaginario esotico, da quell’idea di artigianato etnico che ancora oggi caratterizza molti dei prodotti distribuiti all’interno della filiera del commercio equo e solidale. A nostro vedere questo immaginario non corrisponde alla realtà, malgrado l’eccezionale sviluppo dei mezzi di comunicazione questo stereotipo è ancora ampiamente diffuso nel mondo occidentale. Per noi è di fondamentale importanza la creazione di occasioni di dialogo orizzontale e di operare in un contesto transculturale senza perdere di vista l'obiettivo di valorizzare con i nostri progetti i diversi attori coinvolti e di reimmaginare il mondo materiale attraverso una sintesi delle arti applicate.
Ogni progetto è organizzato all’interno di una piccola filiera produttiva che cerca di coinvolgere il maggior numero di persone con diversi gradi di esperienza e di abilità al fine di sostenere la progressione nella conquista di competenze nei diversi ambiti disciplinari. Per fare un esempio concreto alla realizzazione di uno dei nostri artefatti in legno lavora un falegname specializzato, in grado di tagliare in sicurezza gli elementi costruttivi, ci sarà poi un'altra persona che li assembla, un’altra che si occupa della finitura e carteggiatura e un’altra ancora che si occupa degli interventi di make up grafico che hanno caratterizzato fin dal principio le nostre collezioni. Si tratta di attività che in ugual misura contribuiscono alla buona realizzazione dei prodotti. Un aspetto interessante, per un progettista che collabora con Talking Hands, è costituito dai saperi dei soggetti che sono al momento presenti all’interno dell’atelier, l’utenza cambia in continuazione e con essa anche il portato biografico e le abilità presenti nel gruppo di lavoro.
L’approccio progettuale, non si ferma all'attività laboratoriale tout court, ma intende il design anche come strumento per la progettazione e la creazione di network relazionali che favoriscano la nascita di comunità, di sinergie con l'imprenditoria locale e di interazione con il territorio. Un modello collaborativo che va oltre la "forma", che si espone e prende posizioni, che mette al centro del proprio agire quotidiano il prendersi cura dell'individuo. In questo contesto è nata la collaborazione con il Lanificio Paoletti, centro attivo nella circolazione e nella sperimentazione di idee ad alto contenuto di ricerca, dallo studio esclusivo di intrecci e colori, alla realizzazione di procedimenti che coniugano industria e alto artigianato tessile. Abbiamo aderito a Side by Side nell’ottica di costruire un'ampia piattaforma politica antirazzista, stiamo collaborando con realtà dell'associazionismo e del volontariato sociale come Auser – Cittadini del Mondo, per garantire due corsi settimanali di Italiano all’interno dell’atelier. Una rete di avvocati democratici e lo sportello di ADL Cobas garantiscono ai partecipanti al progetto un supporto sindacale e di orientamento legale. Nei mesi invernali per far fronte al problema della penuria alimentare abbiamo lanciato una “Call for Food” inaugurando un banco alimentare e cercando di garantire un pasto caldo per tutti.
Al momento gli unici beneficiari del progetto sono i migranti, il 50% dei profitti va ai ragazzi che partecipano alle attività dell’atelier, il restante viene messo in una cassa comune e serve all’acquisto di materiali per i laboratori, alle trasferte e per far fronte alle numerose emergenze quotidiane: dall’acquisto di farmaci, al garantire le spese legali per i ricorsi in cassazione e l’acquisto di generi alimentari, in certi casi eccezionali anche ad inviare un piccolo aiuto alle famiglie in difficoltà nei paesi di origine. Siamo ben coscienti però della necessità di superare questo schema e di cercare di mettere a sistema un modello economico che possa garantire dei rimborsi spesa anche ai professionisti che lavorano assieme a noi, sul lungo periodo non è sostenibile chiedere ai designer un coinvolgimento solo su base volontaria.
Una delle sfide è anche quella di pensare e quindi progettare dei nuovi modelli di lavoro comunitario e di immaginare delle forme di micro-reddito in senso cooperativo. In quanto sperimentazioni non esistono sempre delle corrispondenze giuridiche e amministrative per queste esperienze di micro-economia etica, se ci fossero ne verrebbe meno proprio il loro carattere sperimentale. Crediamo sia importante cominciare ad immaginare anche a delle forme di remunerazione per coloro che si mobilitano per la creazione di legami sociali nelle loro città, perché nel loro agire quotidiano svolgono un ruolo fondamentale, creano solidarietà tra gli abitanti, una funzione di grande utilità pubblica perché quando si presentano delle situazioni di crisi, non solo economica, ci accorgiamo che siamo in grado di reggere l'onda d'urto solo se si ricostruisce quel legame sociale che non c'è più, e questo può avvenire solamente tramite il dialogo, il vivere assieme e la solidarietà. Per questo uno dei temi centrali è anche quello del diritto alla sperimentazione e alla creazione di dispositivi in grado di accompagnare queste esperienze anche da un punto di vista economico e amministrativo.
In questo momento sono attivi l’atelier moda, il laboratorio di product design, la scuola d’Italiano, e un legal team che aiuta i beneficiari ad orientarsi nei diversi gradi di giudizio e nei ricorsi in Cassazione.
Talking Hands nasce all'interno di uno spazio sociale, il CSO Django. Ha preso parte attiva, assieme ad altri soggetti associativi, collettivi politici e gruppi informali, all'occupazione di un'area abbandonata all'incuria da diversi decenni, e partecipato a un percorso di progettazione partecipata con lo scopo di avviare una ridefinizione della destinazione d'uso di un ex caserma. Il recupero di un bene pubblico, attraverso la realizzazione di un centro di servizi innovativi, ha favorito i rapporti interdipendenti tra arte, attivismo politico e inclusione sociale all’interno di una riflessione più ampia nel ridisegno del tessuto urbano della città e nel riequilibrio delle sue funzioni sociali. L’azione partecipativa ci ha fatto comprendere la possibilità di sviluppare le potenzialità dei singoli in relazione al raggiungimento di un obiettivo comune. L'avvio di un processo di ri-significazione dell’area dell'ex caserma Piave e l'applicazione con altri, della propria intelligenza e delle proprie abilità, hanno contribuito alla creazione di un etica collettiva e a dare il via ad una sperimentazione basata su modelli partecipativi e di democrazia dal basso. Talking Hands nasce dai desideri e dalla volontà di tenere assieme più ambiti d’intervento in grado di costruire un dialogo verso l'interno e verso l'esterno. Aderire assieme ad altri soggetti impegnati sul fronte dell'accoglienza e dell'inclusione sociale a tutte le principali mobilitazioni regionali e nazionali ha dato origine a "Side by Side", piattaforma politica che è riuscita a unire soggettività con storie e identità molto diverse tra loro: Centri Sociali, Sindacati Autonomi di Base, la galassia dell'Associazionismo e del Volontariato per la costruzione di un fronte comune in grado di opporsi al crescente sentimento di ostilità se non a forme dichiaratamente razziste e di lotta contro tutte le forme di discriminazione sociale, di classe e di genere.
Crediamo sia necessario e urgente ripensare la cultura come a qualcosa di aperto al dialogo a all'incontro con l'altro. "La cultura non è un blocco omogeneo e immutabile bensì un organismo vivente che dall'inizio della storia dell'umanità interagisce con il suo ambiente, venendo a contatto con altre culture" (Michel Serres, 1974). In questa prospettiva non crediamo possibile fare cultura senza cercare di costruire una relazione tra la propria esperienza e quella degli altri. La prospettiva multiculturalista ha evidenziato il rischio di assumere un carattere statico, non si può considerare la cultura come la semplice somma dei particolari mondi di vita, regolata da meccanismi di convivenza tra differenze di ordine etnico, culturale e religioso, senza considerare la possibilità di creare uno spazio "inter" culturale. Crediamo sia necessario riconoscere l'aspetto di normalità della mixité culturale in modo da eliminare vecchie impostazioni biologiche in merito alla paura degli incontri meticci specie In un contesto in cui il sistema economico globale favorisce scambi di merci e di persone e il sistema informativo di massa consente di vedere ciò che accade altrove, rendendo l'incontro soggetto a continue negoziazioni. Crediamo che le nostre differenze sono modi diversi di incarnare una comune dignità umana e che sul piano politico sia necessario costruire degli spazi in cui possano avvenire quelle che Seyla Benhabib definisce delle interazioni democratiche, vale a dire una serie di processi attraverso i quali le identità individuali e collettive rendono fluide e negoziabili le differenze, tra "noi" e "loro", rimettendo in discussione e aggiornando i principi di inclusione. Talking Hands si riconosce in questo spazio, un luogo che rafforza l'idea che la democrazia è sempre da costruire e che senza avere la presunzione di aver capito il segreto di un dialogo trasparente tra persone, cerca di dare delle risposte progettuali che tengano conto delle esigenze e delle sensibilità dei partecipanti.
La nostra filosofia ha origine negli spazi di democrazia dove il design risponde ai bisogni reali dei partecipanti.